E’ il volto accogliente dell’islam: quello mistico di Mevlana Rumi e dei suoi discepoli danzanti, i dervisci. E’ l’islam dell’Anatolia, che ha in Konya il suo epicentro: dove ha vissuto (nel XIII secolo) e oggi riposa il venerato capostipite dei mevlevi. Il suo convento e tomba, oggi museo, attrae ogni anno milioni di visitatori e pellegrini; le celebrazioni del şeb-i arus tra il 16 e il 17 dicembre, la morte terrena di Rumi che è matrimonio spirituale con Dio, sono state trasformate in un festival di dieci giorni a cui partecipano le massime autorità politiche del paese.
Nel mondo anglosassone, la sua poesia mistica e i suoi insegnamenti – il Mathnawi e il Canzoniere, in persiano – sono diventati successi editoriali e fenomeni di massa; questo soprattutto in virtù della sua spiritualità rivolta a tutti i credenti, al di là dell’appartenenza religiosa. Un islam misura d’uomo, che però venne bandito nel 1925 – i conventi chiusi, le confraternite sciolte – dalla Turchia laicista di Atatürk e che è purtroppo spesso ridotto a fenomeno folkloristico per turisti, soprattutto a Istanbul. Rimangono la tradizione e gli insegnamenti del maestro, capisaldi di un primo revival.
Ma chi sono, i dervisci? Gli aspiranti, bussavano alla porta del convento e gli veniva aperto: rimanevano in meditazione per tre giorni, se non desistevano dai loro propositi gli veniva dato un rozzo abito di lana e potevano iniziare un cammino formativo e iniziatico di mille e un giorno, la perfezione del mille aumentata dell’uno che apre all’immensità e all’infinito.
La formazione era curata soprattutto in cucina, dove avveniva la trasformazione dei cibi e dell’aspirante mevlevi: che apprendeva le arti – poesia, calligrafia, musica, danza – in un ambiente esteticamente stimolante, che era chiamato a svolgere i lavori manuali più umili. Il motto che meglio riassume il loro stile di vita è “mangiar poco, dormir poco e parlare poco”; gran parte della loro giornata era infatti dedicata alla preghiera e alla meditazione: alla ripetizione del nome di Dio (zikr), alla purificazione incessante attraverso la guida del proprio maestro (shaykh), all’annullamento in Dio che è una morte ascetica e iniziatica.
Trovava il suo più alto momento nel sema, la danza improntata alla circolarità. Si svolgeva nella semahane, l’ambiente centrale del convento: di forma circolare o ottagonale e sormontato da una cupola, come quello di Galata a Istanbul oggi utilizzato per sema dimostrativi. I danzatori girano su sé stessi ripetendo il nome di Dio, accompagnati da musicisti che riproducono il suono delle sfere celesti; assumono con le palme delle mani – una verso l’alto, una verso il basso – la forma delle lettere arabe lam e mim, la negazione nella professione di fede islamica la ilah illah Allah (non c’è altro Dio all’infuori di Dio). Tutto torna a Dio, che è amore e passione – amore-passione, aşk – e in cui l’individuo e le sue passioni terrene si annientano.
Di Giuseppe Mancini