Vittima di una solitudine aggressiva, penetrante e persistente. Chiuso all’interno di una stanza, oppure ramingo tra le strade di una città alla quale sente di non appartenere. La domanda si ripete compulsivamente, senza lasciare che nemmeno un istante sfugga alla ricorrente insoddisfazione personale. “Qual è lo scopo della mia vita?”. Nessuna risposta ad un quesito troppo complesso per essere risolto in poche battute.
Uomini e donne appartenenti a qualsiasi classe, colpiti dalla condizione di assoluto disagio che viene indicata come marginalità sociale.
Da sempre si guarda con preoccupazione all’emarginazione, situazione che solitamente colpisce gli individui meno abbienti esclusi per mancanza di potere, denaro e prestigio, ricompense che delineano in maniera chiara e inappuntabile le disuguaglianze presenti in ogni società. L’emarginazione però, essendo così globalmente diffusa, è ormai riconosciuta con chiarezza dalla maggioranza e perciò, per quanto possa risultare eticamente sbagliato, accettata come parte integrante della quotidianità.
Quando, invece, si parla di marginalità, le circostanze sono da analizzare più nel dettaglio.
Da definizione, si tratta della condizione psicologica per la quale un individuo non riesce più a riconoscersi nei valori della società in cui vive, finendo per isolarsi ed alienarsi dal contesto circostante. È consuetudine, però, che di questo disagio la persona non faccia trasparire nulla. Troppa è la preoccupazione, nel caso in cui questa appartenga ad una cerchia di status elevato, provata nei confronti dell’ipotetico giudizio che l’ “altro significativo”, ovvero l’individuo le cui impressioni assumono per lui un peso rilevante, possa dare una volta venuto a conoscenza della situazione. I rapporti, in ambienti all’interno dei quali i fondamenti si basino sull’aristocratica apparenza dei costumi, spesso si costruiscono su un sottilissimo filo che separa, mai troppo nitidamente, la menzogna dalla verità. Un castello maestoso, candido e apparentemente perfetto, ha in realtà fondamenta instabili e marce. Così si presenta la simbolica costruzione delle relazioni, in una persona al centro di questo tragico scenario.
È normale, allora, che l’uomo affetto da marginalità si isoli gradualmente, preferendo la solitudine ad uno sguardo sprezzante, un’occhiata altezzosa a lui rivolta da parte di chi, soltanto il giorno prima, lo considerava come simile.
Più l’abbandono della normale routine aumenta, più si sviluppa l’odio verso la società, colpevole di averlo tradito. L’individuo marginale vede in se stesso una gemma dotata di grandi potenzialità che la società, per sadismo o forse solo indifferenza, soffoca costantemente.
Si sviluppa in lui un sentimento di odio, inizia a prendere piede l’idea malata di vendetta nei confronti di ciò che crede sia la causa del suo mancato successo.
Non sbaglia chi sostiene che la marginalità sia strettamente legata alla povertà. È un dato che la maggior parte degli individui marginali cada in questa drammatica condizione psicologica a causa dell’impossibilità economica di raggiungere determinati livelli di integrazione sociale.
Suscita però maggiore interesse, perché apparentemente inspiegabile, il fatto che, a subire gli effetti devastanti dell’alienazione, siano anche individui dotati di spropositata fama e ricchezza. Sylvia Plath, poetessa morta suicida all’età di trent’anni, sosteneva che il suo mancato riconoscimento nei valori della società all’interno della quale, per scelta di altri, era stata costretta a vivere, la facesse costantemente sentire sotto una campana di vetro, alla quale avessero risucchiato tutto l’ossigeno respirabile per lasciare un denso e compatto grumo di aria mefitica. Allo stesso modo doveva sentirsi David Foster Wallace, genio ed esponente di spicco del realismo isterico, trovato impiccato la sera del 12 settembre 2008. Aveva 46 anni, vissuti in maniera complessa almeno quanto i suoi romanzi. Per tutta l’esistenza, nonostante una facciata di allegria costruita ad arte da esporre con mestiere in occasione degli eventi mondani ai quali uno scrittore del suo calibro era tenuto a partecipare, Wallace ha visto in sé un disadattato, un essere completamente insoddisfatto che cercava sollievo ingerendo quotidianamente un’enorme quantità di farmaci.
Porre fine alla propria vita, considerata alla stregua di un oggetto stracolmo di dolore, è un modo scelto da alcuni per liberarsi dall’angoscia esistenziale che la marginalità, vista come distanza dal centro del sistema sociale cui si appartiene, si porta inevitabilmente a braccetto.
Esiste però anche un’altra strada percorribile, che la mente umana individua come scappatoia per reagire ad una situazione apparentemente incontrovertibile. È la via della violenza, o, ancor meglio, della violenza come unica via.
I terroristi di vocazione, coloro i quali si sono resi protagonisti di alcune tra le più grandi stragi della storia contemporanea, hanno iniziato il loro processo di radicalizzazione in una setta estremista partendo dalla situazione di marginalità sociale. È il caso degli attentatori dell’Isis, le cui storie, fotocopie l’una dell’altra, hanno il loro punto di partenza in un trauma psicologico che li ha gettati in una perdurante condizione di isolamento e di disintegrazione dell’identità sociale. È anche il caso, per rimanere all’interno dei confini italiani, dei brigatisti rossi. Sono centinaia i documenti, da loro scritti, all’interno dei quali è possibile trovare gli elementi caratteristici di una marginalità alla quale non sono stati in grado di trovare, autonomamente, soluzioni praticabili.
Trovandosi in questo vortice di disperazione e risentimento, individuando la società come nemico al quale affibbiare, senza troppo senso di colpa, tutte le proprie delusioni, gli individui marginali cercano di ricostruire la propria identità integrandosi in una setta rivoluzionaria, caratterizzata da forti vincoli di sodalità tra i membri che ne fanno parte. L’uomo così non è più solo, ma fa parte di un gruppo che giorno dopo giorno lo avvolge, spogliandolo di ogni individualità ed intrecciandolo in una stretta maglia di legami creati con i compagni. Il rapporto simbiotico come anestetico usato per non sentire un brutale e perpetuo dolore.
Per l’individuo marginale, il cui problema maggiore è rappresentato dal costante senso di solitudine, l’ingresso in una setta è la risposta e la soluzione ad ogni preoccupazione. Questa lo accoglie, appaga i suoi bisogni primari, regola ogni aspetto della sua vita finendo per mutargli la visione del reale attraverso l’innesto di una potente ideologia. Nel caso dei brigatisti, il concetto chiave fu la rappresentazione del mondo come luogo in costante pericolo, perché dominato da essere impuri, bestie e porci, ai quali la vita doveva essere tolta senza remora alcuna. Per i terroristi islamici, la conclusione è la medesima, anche se diverso è il movente.
La marginalità è dunque una condizione democratica, può colpire chiunque senza alcuna distinzione di genere, etnia e classe sociale. Proprio per questo è così pericolosa, perché difficile da riconoscere ed estremamente ardua da combattere.
Come una malattia, una psicosi subdola e meschina, si insinua tra le crepe di un’anima fragile lacerandola dall’interno e rendendola propensa a reazioni estreme.
Così la marginalità ha creato il terrore, isolando gli individui troppo deboli per arginarla e trasformandoli in dispensatori di morte.
È spaventoso pensare come, tutti noi, potremmo ipoteticamente esserne affetti.
“Qual è lo scopo della mia vita?”. Distruggere questo mondo e portare in trionfo la purezza della mia ideologia.
Da queste poche parole nasce il terrorismo.
Loro sono, e continuano ad essere, la causa di centinaia e centinaia di morti.
A cura di Nicola Corradi