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Se una notte in Rojava un fumettista

Il 9 aprile 2017, in occasione del Festival Internazionale di Giornalismo, presso la Sala dei Notari di Perugia, si è tenuta una conferenza  che ha visto protagonisti Wu Ming I e Zerocalcare. I due autori hanno raccontato le loro esperienze con i reportage nei loro ultimi lavori. Wu Ming I ha scritto Un viaggio che non promettiamo breve, un libro che tratta la storia e l’evoluzione delle lotte del movimento No Tav in Val di Susa; Zerocalcare invece, ha realizzato Kobane Calling, un fumetto sul suo viaggio al confine tra la Turchia e la Siria, a pochi chilometri dalla città assediata di Kobane, tra i difensori curdi del Rojava, opposti alle forze dello Stato Islamico. 

 Al termine della conferenza, Zerocalcare ci ha concesso un’intervista. 

 

 D: Hai trasformato tua madre in Lady Cocca e un tuo amico in un supplì. Qualcuno si è mai lamentato del personaggio con cui lo hai identificato? 

 R: Sì, in realtà questi due casi specifici si sono lamentati entrambi perché dicono:“Non siamo così ciccioni”ma in realtà la risposta è “sì, lo siete”. Quindi, sono assolutamente in diritto di rappresentarli in questo modo. Sei proprio riuscita a pescare i due che non sono contenti. In generale però, sono felici o comunque indifferenti di finire in mezzo ai fumetti. Quelli che si potrebbero risentire tanto, di solito faccio in modo che non si possano riconoscere, quindi evito così il problema. 

 

D: Sul tuo blog definisci Kobane Calling un non-reportage. Come mai? 

 R: Perché in realtà  c’è sempre un po’ di pudore, ritrosia a usare i termini giornalistici. Nel senso che il giornalismo, nella mia testa da profano, mi sembra che porti con sé anche qualcosa di molto nobile, anche una distanza oggettiva  dall’oggetto del racconto. In realtà io non ho mai provato a fare quella cosa là; io ho fatto un diario di viaggio e quindi questo aspetto del reportage mi sembrava un po’ pomposo. Però, siccome tutti continuano a chiamarlo così, magari con  il prefisso non si riusciva a farlo passare. 

 

D: Cosa ti ha lasciato il viaggio a Kobane? 

 R: Mi ha lasciato un sacco di roba di cui, in realtà, non mi sono neanche reso conto nell’immediato. Nel senso che, a parte un sacco di emozioni molto intense per tutta l’esperienza che è stata, dato che era la prima volta che mi trovavo in quel tipo di territorio, mi è rimasto tutto quello che sta alla base della rivoluzione che stanno facendo i kurdi, che appunto si basa sulla convivenza tra religioni, culture, eccetera. In realtà tutto questo parte da un discorso proprio centrato dell’individuo, cioè di una continua critica e autocritica di se stessi e dei modelli  organizzativi e politici che uno si dà e questa cosa è andata avanti per quarant’anni. Questa è proprio una loro formazione mentale che c’hanno, questa di mettere sempre in discussione se stessi per cercare di migliorare. E questa è una cosa che io mantengo un po’ in secondo piano anche nel racconto del libro. Invece, nei mesi successivi, per una serie di fatti della mia vita privata, anche di crisi individuale, quel tipo di ragionamento là mi è tornato e ci ho ripensato un sacco. Quindi in verità è una cosa che mi è rimasta molto più impressa di quanto non sembrasse. 

 

D: A livello comunicativo, secondo te, quali sono le potenzialità e i limiti del fumetto? 

 R: Allora, le potenzialità e i limiti… le potenzialità sono molto ampie, soprattutto per questo tipo di lavoro. In realtà per tutto. Nel senso che, il fumetto è un linguaggio, non è un genere, quindi ce poi racconta’ veramente qualsiasi cosa, dal saggio all’intervista, dalla storia d’amore alla storia d’avventura. Per i racconti anche di realtà, secondo me, c’ha delle qualità molto fighe che riguardano il fatto di poter essere magari non proprio fedele alla realtà vera come uno la osserva, come sarebbe una fotografia, ma di poter essere fedele alle emozioni. A quello che uno sente dentro. E questa cosa qua secondo me è molto buona perché genera empatia tra il lettore  e l’oggetto della narrazione. I limiti sono che, contrariamente a quello che pensa un sacco di gente, almeno nel caso mio, il fumetto comunque è un linguaggio difficile, non è un linguaggio semplice. Nel senso che, è sempre qualcosa che ti richiede uno sforzo, cioè richiede al lettore uno sforzo di sintesi tra l’immagine e il testo, uno sforzo di immaginazione per riempire con la fantasia lo spazio tra una vignetta e l’altra. Cioè, per dire, a me rilassa molto di più leggere un libro che non leggere un fumetto. Questa cosa qua secondo me è un po’ il limite del mezzo. 

 

D: Ultima domanda. Da abitante del Quadraro ad abitante di Rebibbia, dov’è il mammut? 

 R: Ci sei mai venuta a Rebibbia comunque? 

 D: No, mai. Devo rimediare. 

 R: Devi rimediare sì, assolutamente. Esci dalla Metro Rebibbia, prendi Via Casal dei Pazzi. Quando arrivi alle case popolari giri a sinistra e sulla destra ti trovi una specie di grande casolare di mattoni rossi dentro cui ci sta il mammut. 

 

 

A cura di Beatrice Petrella 

Redazione

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