27 Aprile 2024 - 16:35
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Uno sguardo lontano per stare un passo più vicini

Il Natale è una festa cristiana universale che per i Saraguros, una comunità di popoli indigeni latino-americani stanziata nelle montagne della Sierra Ecuatoriana, rappresenta la celebrazione più importante dell’anno, attesa con calzante allegria e solenni preparativi, simboli carismatici dello stile nei festeggiamenti. Come ben noto, la natalità di Gesù di Nazareth a Betlemme viene tanto attesa quanto celebrata nel cuore dei fedeli, per consuetudine, la notte fra il 24 e il 25 dicembre. A Saraguro, come caratteristica molto antica, ha luogo una triplice celebrazione della Messa: a Mezzanotte, all’Aurora e a Mezzogiorno.

Dunque, la dimensione prettamente eucaristica è simile a quella cristiana, alla quale si aggiungono connotazioni originali, prima fra tutte la presenza di svariati personaggi, fra cui spiccano il Marcantaita, la Marcanmama , i Musicos, i Diablicos, i Monos. Per la scelta di tali attori tradizionali, attrazione principale dell’evento, sono previsti riti ancestrali, intesi come regole di culto strettamente connesse al ciclo naturale. Codeste figure sono presenti in tutte le celebrazioni che si svolgono durante le vacanze di Natale e ciascuna  è un elemento della festa avente una funzione perfettamente strutturata ed essenziale; non a caso, la mancanza di una di loro renderebbe la festa incompleta, producendo una sensazione di irrealtà e un certo grado di freddezza tra partecipanti. Quasi tutti i Saraguros riservano all’interno delle loro mansioni quotidiane una parentesi di partecipazione attiva alla ricorrenza religiosa che, pertanto, rappresenta la migliore occasione dell’anno per stabilire relazioni sociali tra i membri delle varie comunità; dal momento che la casa delle feste è il luogo d’incontro di tutti, dove si danza, si diventa mariti, mogli, suoceri, compagni di vita…

Le figure coinvolte nella celebrazione del Natale sono presenti nelle diverse comunità del comune di Saraguro con minime variazioni sia nell’elaborazione dei loro costumi, che nelle loro danze e nel modo di organizzare la festa. L’idea generale circa il significato di questi personaggi, rigorosamente scelti secondo criteri di esperienza ed annunciati durante la celebrazione eucaristica, è che assumono il ruolo di padre (Marcantaita) e madre (Marcanmama), i quali invitano l’intera comunità a trascorrere piacevoli momenti, godendo di ogni bene condivisibile. Ciò rappresentata una reminiscenza delle usanze proprie degli antenati Inca: quando tutti erano chiamati dal loro capo supremo, il Sapa Inca, a trascorrere giorni festivi nei quali la collettività mangiava e beveva allegramente. Si combina, così, la motivazione religiosa cristiana con la sfera esperienziale indigena dei compagni e dei familiari che offrono il loro contingente disinteressato, dimostrando solidarietà e reciprocità. Esattamente tale commistione di elementi ha reso il popolo indigeno unito, permettendogli di resistere a fattori esterni che, giorno dopo giorno, cercano di cambiarne l’idiosincrasia.

Vista l’attuale situazione del popolo Saraguro rispetto alla cultura, si sta attraversando una fase di etnogenesi necessaria per la preservazione della propria identità etnica, inscindibile dalle proprie radici. Di qui, preoccupa il disinteresse delle nuove generazioni nell’interpretazione degli antichi costumi lasciati in balia della tradizione. Tradizione che, autonomamente, non è in grado di tenersi in vita per sempre, né tantomeno di ritagliarsi uno spazio vitale di respiro collettivo. Allora cosa oggi più della tradizione, che sia di matrice religiosa o di altro tipo, è in grado di creare momenti di coesione sociale? Il messaggio lanciato da Papa Francesco nell’enciclica “Fratelli tutti” offre interessanti spunti di riflessione al riguardo. A partire dalla conclamata assenza di orizzonti favorevoli alla conversione unitaria, il pontefice sottolinea la prevaricante dimensione di timore per il non scibile, situato aldilà delle mura della comfort zone. La cosiddetta “cultura dei muri” è individuabile come fattore causativo del declino dei momenti di interscambio culturale e sociale che un tempo coinvolgevano ampi strati della popolazione.

La crescente forza direttrice del cambiamento materiale non è stata e non sembra essere, in egual misura, compensata da una scala valoriale inclusiva e quanto più egualitaria possibile. Il precedente riferimento alla ritualità natalizia tipica dei Saraguros non era affatto casuale, al contrario, incarna una dimensione – oggi sempre meno presente – di vicinanza terrena, oltre che spirituale, fra membri della stessa comunità. Stiamo attraversando l’era dell’isolamento fiduciario da prima dell’avvento del Covid-19. Ognuno con la propria velocità percorre strade di convenienza mirata, destinando microscopica attenzione all’altruismo e allo spirito di collaborazione, distanziandosi sempre più dal senso di appartenenza comune. Come stimolare, allora, il coinvolgimento a ciò che accade al di fuori del proprio raggio di luce? Prendendo spunto dalla cultura dei Saraguros e similia, la consapevolezza d’essere tutti essenziali per la riuscita di un progetto comune (che si tratti di una festività natalizia o di qualsiasi altra attività) rappresenta un incentivo a condurre un’esistenza interessata, conscia dell’indispensabilità dell’altro. Uno dei principali teorici dello stato sociale, Thomas Hobbes, asseriva nel lontano 1651 che l’interesse e la paura sono i princìpi della società. Mentre la paura è più viva che mai, l’interesse sociale si fa sempre più impercettibile, minato dall’insaziabile fame individualista.

“La nostra tendenza è di interessarci a qualcosa che cresce nel giardino, non nella nuda terra in se stessa. Ma se vuoi avere un buon raccolto, la cosa più importante è rendere il terreno fertile e coltivarlo bene.” Shunryu Suzuki, celebre maestro zen, ci ricorda che perfino un’arida terra è in grado di donare splendidi frutti se seminata con speranza, rivalutazione e cura. Per raggiungere una società multiculturale e – a tutti gli effetti – rispettosa della dignità di ciascun componente, riconoscere l’altrui specificità e ampliare assieme le proprie vedute attraverso modelli di sviluppo più inclusivi, potrebbe essere un ottimo punto di inizio. Che aspettiamo a partire tutti per una missione trascendente gli orientamenti etico-religiosi e libera di aggirarsi per i canali di comunicazione più ascoltati?

Articolo a cura di Alessia Iervolino

Redazione

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