19 Maggio 2024 - 4:12
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STOP TORTURA

La redazione di Globe Trotter è molto orgogliosa di poter annunciare la nascita di una collaborazione con Amnesty International Gruppo Giovani 100. Ogni giovedì, verrà pubblicato un articolo attinente alla tematica dei diritti umani a cura dell’associazione della nostra università.

STOP TORTURA:

Una campagna necessaria ancora in troppe parti del mondo.

L’art. 5 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani recita “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti.”

Ma quando un maltrattamento può definirsi “tortura”?

La Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura afferma che la tortura si verifica quando una persona infligge intenzionalmente dolore o sofferenze gravi ad un’altra persona allo scopo di ottenere informazioni o una confessione, oppure punirla, intimidirla o imporle una costrizione. Il perpetratore della tortura, aggiunge, deve essere un pubblico ufficiale o quanto meno agire a titolo ufficiale, quindi con deve avere un certo livello di approvazione da parte dell’autorità.

Il diritto ad essere liberi da tortura è il diritto umano sulla carta più protetto di tutti in quanto il divieto assoluto di tortura è una norma di diritto internazionale consuetudinario, ossia vincola anche gli Stati che non hanno aderito ai principali trattati sui diritti umani ed anche un singolo atto di tortura è considerato reato ai sensi del diritto internazionale. Alla tortura poi sono equiparate la sparizione forzata (che costituisce anche una forma di maltrattamento per la famiglia dello scomparso) e la detenzione in incommunicado (in cui a un prigioniero è vietato ogni contatto con l’esterno) le quali facilitano la possibilità di tortura e maltrattamenti.

Ma perché è solo sulla carta il più protetto?

Tutte le ricerche e le prove raccolte da Amnesty International ci dicono che, 30 anni dopo l’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti questa è ancora molto diffusa. Solo negli ultimi 5 anni, infatti, violazioni della Convenzione da parte di funzionari statali sono state segnalate in 141 Paesi, alcuni sono episodi isolati mentre per molti altri è la routine. Ma c’è di più: questi dati si riferiscono solo ai casi conosciuti e riferiti alla nostra organizzazione, non riflettendo necessariamente la portata totale della tortura nel mondo.

Il dato ancora più raccapricciante è che chiunque può essere vittima di tortura, indipendentemente da età, sesso, etnia o opinioni politiche. Certo, alcuni individui e gruppi sono più vulnerabili di altri, ma molto spesso le vittime vengono torturate solo perché si trovavano nel momento sbagliato al posto sbagliato. Neanche i bambini vengono risparmiati, anzi in molti Paesi quelli che sono sotto custodia della polizia sono esposti a stupro ed altre forme di violenza sessuale. Stesso discorso vale per le donne, per le quali sono stati riservati trattamenti ad hoc, quali: aborti forzati, mutilazioni genitali, rifiuto all’aborto ecc..

Contrariamente all’opinione di molti, tutto questo non avviene solo nei Paesi in via di sviluppo. Nei paesi dell’ex Unione Sovietica, per esempio, la tortura è esercitata regolarmente da parte di forze armate corrotte nei confronti di presunti militanti di movimenti separatisti o di oppositori politici, per estorcere loro una confessione veloce. Ma neanche la buona cara vecchia Europa né gli Stati Uniti ne sono immuni.

Dal 1972 Amnesty International conduce campagne contro la tortura contribuendo all’adozione, nel 1984, della Convenzione delle Nazioni Unite. La campagna “Stop alla tortura”, lanciata nel maggio dello scorso anno, chiede che ogni persona sia protetta dalla tortura e si concentra sulle garanzie fondamentali a tutela dei diritti umani che gli attori statali devono adottare con quanti si trovino sotto la loro custodia.

Ad oggi la campagna internazionale si concentra su 5 stati: Filippine, Nigeria, Messico, Marocco e Uzbekistan ai quali Amnesty International chiede siano introdotte e attuate garanzie efficaci contro la tortura. La campagna esplica nel dettaglio quali sono queste garanzie che si richiedono vengano attuate dai governi, la lista completa delle quali la si può trovare sul sito dell’organizzazione. Si tratta di garanzie minime essenziali che dovrebbero essere rispettate al momento dell’arresto, durante la detenzione, durante l’interrogatorio e dopo il rilascio e della previsione di meccanismi di monitoraggio/controllo dei luoghi di prevenzione e di meccanismi efficaci di sorveglianza del comportamento delle forze dell’ordine.

Tra i casi più gravi troviamo il Messico e l’Uzbekistan.

In Messico, si è registrato un aumento delle segnalazioni di tortura e altri maltrattamenti in concomitanza con la spirale di violenza innescatasi dopo il 2006 come conseguenza della “guerra alla droga” del governo che ha cominciato ad impiegare su larga scala esercito e marina militare per combattere la criminalità organizzata. Secondo la Commissione nazionale dei diritti umani (Comisión Nacional de los Derechos Humanos, Cndh), il numero di denunce segnalate nel 2013 è stato maggiore del 600% rispetto a quello del 2003. Anche questo aumento probabilmente rappresenta una sottostima delle cifre reali. Tra il 2010 e la fine del 2013, la Commissione ha ricevuto oltre 7000 denunce di tortura e altri maltrattamenti.

In Uzbekistan, teatro nel 2005 di una strage di centinaia di oppositori politici ad Andijan, “chiunque non ricada nei favori delle autorità può essere arrestato e torturato. Nessuno si sottrae alla morsa dello Stato”, ha dichiarato John Dalhuisen, Direttore del programma Europa e Asia Centrale di Amnesty International. Nel suo rapporto presentato a Berlino, basato su più di 60 interviste condotte tra il 2013 ed il 2015 e da prove raccolte in 23 anni, si denuncia l’esistenza di camere di tortura con pareti rivestite di gomme ed isolate acusticamente, a completa disposizione del SnB, Servizio di Sicurezza Nazionale (la polizia segreta uzbeca) ed il continuo uso di celle di tortura sotterranee nelle stazioni di polizia. Le forze di sicurezza prendono di mira oppositori politici, gruppi religiosi, lavoratori migranti ed imprenditori non “trascurando” neanche le loro famiglie. Questo sistema continua impunito dal 1992 nonostante la tortura sia stata dichiarata reato da quello stesso anno (soli 11 agenti incriminati dal 2010 al 2013 a fronte delle 336 denunce registrate ufficialmente). Spesso poi, i casi sono affidati alle stesse autorità accusate di tortura e le probabilità che le vittime ottengano una qualche forma di risarcimento oltre che di giustizia sono estremamente basse. Ma, ad avviso di chi scrive, il dato più sconcertante è che l’Europa, già nel 2008/2009, e gli USA, nel 2012, hanno annullato le sanzioni imposte al Paese a seguito della strage di Andijan per potervi intraprendere rapporti economici e militari convenienti.

Ma neanche nel nostro Paese siamo completamente immuni da queste forme di violazioni dei diritti umani. Basta ricordare i casi di Stefano Cucchi, Federico Aldovrandi e l’ormai tristemente celeberrimo caso di violenza praticata dalle forze di polizia alla scuola Diaz, durante il G8 di Genova che ci è costato anche una sanzione da parte della Corte Europea dei Diritti Umani.

Nonostante l’art.2 della Convenzione contro la tortura, di cui l’Italia risulta essere tra i Paesi firmatari, richieda che “ogni Stato parte adotti misure legislative, amministrative, giudiziarie e altre misure efficaci per impedire che atti di tortura siano commessi in qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione” il nostro Parlamento è ancora ben lungi, a 30 anni di distanza, dall’introdurre nel codice penale il reato di tortura.

Dopo le pressioni di Amnesty International, di Antigone e di altre associazioni e dopo la condanna della Corte europea dei diritti umani e le del Presidente del Consiglio Matteo Renzi che affermava “ciò che è accaduto attiene a una pagina nera nella storia del nostro Paese. E se vogliamo affrontare quella pagina nera, la prima cosa da fare è introdurre subito il reato di tortura”, si è creduto che finalmente si fosse arrivati ad un punto di svolta.

Dopo l’approvazione del testo alla Camera, però, la proposta di legge si è arenata in Senato il quale, nei pochissimi interventi fatti a riguardo, se possibile, ne ha peggiorato il testo già alquanto contestabile (si era prefigurato il reato sì, ma come reato comune, imputabile dunque a qualunque cittadino e si erano previste pene molto basse, specie se raffrontate con quelle di altri Paesi).

Il Presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, in un’intervista rilasciata all’Espresso infatti denuncia “al Senato si sono superati. Sono state approvate modifiche per le quali, ad esempio, affinché si possa parlare di tortura, devono essere commesse più violenze. È stato messo il plurale: una sola violenza non basta per configurare una tortura. Senza dimenticare che è stato deciso che quando si produce una sofferenza psichica, questa deve essere verificabile. Il che è ovviamente impossibile, specie se, come accade spesso in Italia, i processi durano anche dieci anni”. L’obiettivo quindi, a più di 8 mesi dall’approvazione del testo alla Camera (9 aprile 2015), sembrerebbe essere quello di far cadere nuovamente nel dimenticatoio tutta la vicenda.

Casi come quelli illustrati in questo articolo non sono casi isolati né riguardano esclusivamente Paesi a noi tanto lontani come il Messico o l’Uzbekistan, abbiamo visto, infatti, che anche l’Italia non ne è affatto immune.

Per approfondire l’argomento vi invito a visitare la pagina della campagna nella sezione dedicata http://www.amnesty.it/stoptortura e a firmare gli appelli online che vi troverete.

Aiutateci a porre fine ad una barbarie inaccettabile come questa! Non rimanete nel silenzio, facilitando così il lavoro di coloro che si oppongono all’adozione di misure efficaci di contrasto a questi crimini.

Aiutateci a gridare a gran voce “Stop alla tortura”.

di Martina Bossi

Redazione

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