Se l’intero 2016 potesse essere incarnato da una singola persona, probabilmente ci sarebbero pochi dubbi su chi dovrebbe svolgere il compito: Donald Trump. Definito da alcuni come la rappresentazione vivente dell’antipolitica, è sicuramente il candidato più imprevedibile che si sia mai presentato nella campagna elettorale statunitense. La stampa mondiale è stata sconfessata nel momento in cui il tycoon, contro tutti i pronostici, ha battuto la candidata democratica Hillary Clinton, considerata la persona più preparata per il ruolo di presidente degli Stati Uniti nella Storia americana. Eppure, il curriculum importante e la campagna massiccia dell’ex Segretario di Stato non sono bastati per portarla alla Casa Bianca.
L’8 novembre si è concluso con lo stupore e lo sconcerto di gran parte dell’opinione pubblica mondiale, lasciando stupiti pressoché tutti i commentatori che hanno seguito la campagna elettorale più agguerrita del momento. Per fortuna, fra coloro che non si sono fatti trovare impreparati, c’è anche Francesco Costa.
32 anni, vicedirettore de Il Post, nato a Catania e residente a Milano dal 2010. Gli piacciono le elezioni, le campagne elettorali, il cibo spazzatura, Seinfeld – ma apprezza anche The Wire – e la Roma, almeno in base alla sua breve biografia presente su internet.
È stato un autentico colpo di fortuna incontrarlo alla reception dell’Hotel Brufani di Perugia, dopo un pomeriggio non particolarmente fortunato, per potergli chiedere il suo numero, soprattutto perché il giorno dopo – domenica 9 aprile – avrebbe partecipato al panel dal titolo L’America di Trump: cosa avevamo sbagliato.
Se le elezioni americane sono andate come abbiamo visto, il futuro della Presidenza Trump è ancora incerto. Tuttavia, a seguito del panel, abbiamo provato a fare un po’ di chiarezza durante una breve intervista concessaci gentilmente dal giornalista. Ecco le conclusioni a cui siamo giunti.
D: Partiamo subito con l’attualità, in particolare con l’ultima mossa di Donald Trump nel contesto siriano. Essa dimostra un cambio di tendenza in quella politica, che si prospettava isolazionista, del presidente ed un ritorno dell’influenza delle lobbies delle armi?
R: Secondo me più la prima, nel senso che abbiamo avuto una conferma di una cosa che sapevamo ma che ci ha lasciati spiazzati, e cioè sapevamo che Trump sia un candidato molto imprevedibile, è stato imprevedibile e che potesse essere un presidente imprevedibile. Sappiamo e sapevamo anche che non ha una vera dottrina politica molto solida, ha cambiato idea molte volte sulle cose e quindi sapevamo che avrebbe potuto cambiare idea ancora, e questo è quello che è effettivamente successo. Ha risposto al bombardamento chimico del regime di Assad sulla città di Khan Sheikhun in un modo che molti non avrebbero previsto, ma che allo stesso tempo ci conferma che questo è un presidente da cui possiamo aspettarci qualsiasi cosa. La lobby delle armi ha una grossa influenza negli Stati Uniti, soprattutto per quel che riguarda il possesso individuale delle armi. Nel caso dei grossi armamenti naturalmente conta, però questo attacco secondo me non preannuncia un maggiore impegno bellico degli Stati Uniti in Siria. Non è stato un attacco per deporre Assad: è stata una rappresaglia mirata. Poi anche questo potrebbe cambiare da qui in poi, ma per adesso stiamo parlando di un caso isolato.
D: Il ruolo di Steve Bannon all’interno dell’amministrazione Trump è stato molto ridimensionato, fino alla sua rimozione. Cosa potrebbe significare all’interno degli equilibri del Partito Repubblicano americano?
R: Guarda: non è ancora una svolta definitiva, nel senso che Bannon è stato rimosso dal Consiglio di Sicurezza Nazionale ma è ancora un suo consigliere alla Casa Bianca ed ha vari privilegi rispetto ad altri consiglieri di Trump. Di sicuro Trump ha capito, in questi primi quasi cento giorni, che su certi aspetti soprattutto – per esempio i rapporti col Congresso – la linea dura non funziona. Bannon ha gestito i negoziati sulla riforma sanitaria e sono andati molto male, Trump si è perso sia i moderati del suo partito che la corrente più estremista, quindi secondo me vuol dire che Trump sia disposto, quantomeno, a mettere in discussione l’approccio più muscolare e bellicoso che invece aveva avuto fin qui.
D: Ricollegandoci proprio al concetto di “approccio muscolare”: il cambio di tendenza, o comunque il consolidamento di alcune linee politiche nel contesto siriano potrebbe essere utilizzato per accattivarsi l’opinione pubblica, in funzione anche delle prossime riforme che la Presidenza deve puntare, soprattutto quella dell’Obamacare?
R: È possibile: questo bombardamento, soprattutto perché è avvenuto dopo il bombardamento chimico di Assad, con delle immagini che hanno sconvolto tutti e che sono state molto trasmesse dalle TV, cosa di cui Trump è molto consapevole, è stato per lui, dal punto di vista della popolarità, una buona mossa. Poi non credo che l’abbia deciso per questo o, quantomeno, non solo per questo, però sappiamo che quantomeno nel breve termine un presidente attivo sulla scena internazionale, anche in modo aggressivo, riesce ad ottenere più consensi e Trump era, ed è, in un momento di grande impopolarità: non si sono mai visti numeri così bassi di popolarità per un presidente all’inizio del suo mandato, quindi sì, potrebbe avere un ruolo sicuramente.
D: Un’ultima domanda: la Presidenza Trump è caratterizzata da una grossa fragilità, soprattutto per quanto riguarda il tema degli scandali: ce ne sono tanti, ce ne sono molti di influenti e coinvolgono vari livelli dell’amministrazione. Come potrebbe profilarsi una situazione in cui questi scandali diventano troppo forti, troppo difficili da sostenere per l’amministrazione?
R: Questo potrebbe creare caos. Trump da una parte si è messo volutamente in questa condizione: ama avere attorno persone che la pensano in modo molto diverso da lui, per esempio. Questo genera, però, situazioni caotiche. Gli scandali lo hanno già privato del suo consigliere per la Sicurezza Nazionale che si è dovuto dimettere, c’è un’inchiesta dell’FBI in corso sui rapporti fra il suo comitato e la Russia, il procuratore generale – anche lui coinvolto in uno scandalo – ha dovuto rinunciare alla supervisione di quell’inchiesta. Tutto può diventare molto più complicato per Trump. Da un’altra parte, questo è come la politica americana è quasi sempre stata. L’amministrazione Obama, che è stata priva di scandali del tutto per gli otto anni, è un caso eccezionale: Clinton ha avuto i suoi, Bush ha avuto i suoi e via dicendo. Quindi, da una parte, è una specie di un ritorno all’antico per la politica americana.