14 Maggio 2024 - 11:53
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Non chiamatelo giullare: il mio incontro con Dario Fo

Durante le sere d’estate l’Auditorium Parco della musica di Roma acquisisce un’atmosfera misteriosamente elettrizzante, frenetica, alimentata dal brusio degli spettatori asserragliati sugli spalti che, di su e di giù, sembrano ammassarsi come il terriccio trascinato dalla piena di un fiume. Il primo agosto di questo bizzarro 2016 venivo trascinato anch’io dalla piena, sempre più in alto, verso il centro della curva che abbraccia il palcoscenico e lo sovrasta imponente. Gli esami erano già finiti e si pregustava la partenza per le vacanze, per cui avevo deciso di concedermi un piccolo momento a contatto con l’arte – che, di questi tempi, non guasta mai –. Tutti erano impazienti: era come se la Storia in persona, piuttosto che un attore, dovesse percorrere il palco con i propri passi.

Non appena le luci si abbassarono ed il brusio iniziò a defilarsi, Dario Fo fece il suo ingresso in teatro: l’applauso del pubblico scese impetuosamente ad abbracciarlo. Si poteva chiaramente leggere nei suoi occhi la commozione di essere di nuovo a Roma, città in cui ha lavorato per anni allestendo spettacoli con la moglie Franca ma in cui non tornava da molti anni. Per questo, come lui stesso ammise quasi colpevolmente, aveva sempre desiderato di poter tornare nella Capitale, riportando in scena il suo celebre Mistero buffo – una raccolta di monologhi ad argomento satirico in dialetto, di volta in volta riadattati all’occasione –. Si trattò di un ritorno particolarmente atteso, anche perché originariamente la rappresentazione doveva essere a metà giugno, in seguito rinviata per problemi di salute dell’attore (una raucedine molto fastidiosa). “Ho combattuto per essere qui a Roma e finalmente ci sono riuscito”, ha detto il Maestro. Presto perdonato!

I monologhi scelti per l’occasione erano La parpaja topola – narrazione esilarante dal forte contenuto osceno, ispirata ad un testo medievale tradotto da una ricercatrice e presentato allo stesso Fo – e Il primo miracolo di Gesù bambino – tratto dai vangeli apocrifi, entrambi recitati in un misto di dialetti dell’Italia centrale che Fo ha adottato per omaggiare il proprio pubblico, oltre che per facilitarlo nella comprensione. Il riferimento all’attualità, come era logico supporre, ha fatto da padrone soprattutto nel secondo caso, in cui il premio Nobel ha voluto far leggere la condizione dello straniero che, come Gesù durante La strage degli innocenti, fugge in una terra sconosciuta e si scontra con l’avversione di chi vede in lui l’intruso, l’immigrato, l’estraneo. Non vi anticipo altro, non vorrei rovinarvi la sorpresa qualora lo riusciate a ritrovare!

La particolarità dello spettacolo, prima ancora che la scelta dei temi, fu il ritmo creatosi fra attore e pubblico, il quale era costituito per la maggior parte da persone che vedevano Dario Fo per la prima volta – fatto che lui notò ed affermò esplicitamente –. Si capiva dall’apparente fatica che gli spettatori facevano nel seguire il ritmo travolgente della narrazione – complice anche il linguaggio dirompente con cui era condotta –, fatica che però venne meno nel secondo monologo, in cui le due parti riuscirono finalmente a trovare una simbiosi totale. A quel punto nulla sfuggiva all’orecchio dei presenti.

La magica unione proseguì quando Fo, terminato lo spettacolo, decise di spendere qualche parola per una Capitale in ginocchio, metafora fin troppo fedele di un’intera nazione. Tutti si erano avvicinati al palco per ascoltarlo, attratti dalle sue parole come novelli Ulisse dal canto delle sirene. Sembravano attendere che pronunciasse la parola definitiva, la morale universale, la sentenza che avrebbe concluso per sempre la loro ricerca di un “perché”. Da Fo non arrivò tutto questo, ma ciò non ci rattristò. Ce ne andammo comunque sentendo che fosse stato bello aver partecipato.

È proprio con l’immagine di tutte quelle persone raccolte attorno al Maestro nella mente che provo a rivolgere il mio ultimo saluto ad un personaggio culturalmente immenso, controverso e scomodo per molti, capace di farci ridere di chi ha il potere e recuperare una tradizione letteraria – quella giullaresca medievale – dimenticata dalla cultura raffinata e poco incline a sporcarsi le mani con il turpe e l’osceno.

La maggior parte vorrà celebrare questo astro del teatro con il titolo di “giullare”. Spero mi perdonerete se non mi unisco al coro. Per quanto la definizione sia rispecchiata nella motivazione del premio Nobel nel 1997 – “Perché, seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi”, non è ad un giullare che ho pensato in quel primo agosto in cui ho passato una mia serata estiva ad ascoltarlo. Preferirei chiamarlo, se me lo concedete, “amico”, visto che è questo il rapporto che ho sentito di avere con lui pur vedendolo sul parco per la prima ed ultima volta.

Il mio amico Dario Fo. Suona anche bene!

Ciao Dario.

 

A cura di Riccardo Antonucci

 

Redazione

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