26 Aprile 2024 - 5:31
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Le origini. Dal 1799… (prima puntata)

Nell’epoca attuale siamo abituati, quando parliamo di criminalità organizzata e soprattutto di mafia, a far subito riferimento a Cosa Nostra. Ma Cosa Nostra riguarda un’organizzazione criminale a sfondo mafioso che potremmo definire alquanto “moderna”.

Qualcuno di voi si è mai chiesto quando, la parola mafia, fece la sua primissima comparsa sulla scena mondiale? Il perché della sua nascita e quali furono gli scopi alla base di questo fenomeno?

Al riguardo ci sono due filoni di pensiero.

Il primo pensiero, ed anche il più apprezzato sia a livello cronologico-storico sia a livello repertato, viene enunciato da un “oscuro” scrittore e giornalista popolare, un certo Giuseppe Petrai nato a Firenze nel 1850 – in uno dei suoi reperti storici dove raccontava accadimenti di quel tempo – s’inventò e sottolineò per la nascita della mafia una data ben precisa, i primi giorni di un caldo Giugno del 1799, con un’altrettanta precisa località, Mazara del Vallo in provincia di Trapani.

Secondo il Petrai, cinque soggetti dai soprannomi tanto buffi quanto “tipici” (Zampa di Porco, Naso di Cane, Giacalone, Zì Pascà e Iannone), che potremmo definire i soci fondatori, in una taverna di città diedero vita per a questa organizzazione. Tutt’altro che generata per caso, i motivi alla base vennero in risalto negli anni successivi. Un esempio tipico si ebbe quando il 3 Agosto del 1838 un magistrato di Trapani, il procuratore borbonico Pietro Calà, ne fece menzione in un suo documento:

“Non vi è impiegato in Sicilia che non sia prostrato al cenno di un prepotente e che non abbia pensato a tirar profitto dal suo ufficio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Via ha in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è possidente, là un arciprete… […] Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo! La mancanza di forza pubblica, di percezione dello stato assistenziale, ha fatto moltiplicare il numero dei reati. Il popolo è venuto a tacita convenzione coi rei. Come accadono i furti escono i mediatori ad offrire transazione per il recupero degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito! Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e s’inscrivon nei partiti. Molti altri funzionari li copriva di un’egida impenetrabile […]”

C’è poi chi azzarda, il secondo pensiero minoritario, come il grande politologo Gaetano Mosca, a fornire una data ancora anteriore. Si spinge indietro fino al Seicento, collegandosi in modo spericolato ed estensivo, al quadro della dominazione spagnola in Italia.

Stando alla tale interpretazione, un’idea generale circa le condizioni sociali nelle quali nacque e si sviluppò la mafia potrebbe trarsi dalla rappresentazione che di tale dominazione straniera fornisce il Manzoni ricostruendo le traversie di Renzo e Lucia, i protagonisti del suo celebre romanzo i “Promessi sposi” – nelle trame di una società nella quale l’arbitrio privato si sostituiva di fatto al vuoto esteso delle leggi dello stato – a esclusivo vantaggio dei potenti e del loro seguito di sgherri e di ribaldi: “i Bravi” di don Rodrigo e dell’Innominato, e meglio ancora, i due stessi “gran signori”, sarebbero così, i progenitori dei mafiosi.

Ve lo aspettavate? Beh.. in realtà si tratta di un pensiero questo poco condiviso in quanto da solo non spiega perché i primi “frutti” mafiosi del dominio spagnolo in Italia non abbiano avuto seguito in Lombardia, che è l’ambiente della narrazione manzoniana e, meno ancora, spiega perché la Spagna, che avrebbe dovuto essere l’epicentro del fenomeno in questione, non ne sia stata vistosamente contaminata.

Ci sentiamo dunque, a mio avviso, di avvicinarci di più al primo pensiero, più razionale, più pragmatico, più “narrato e repertato” negli anni successivi attraverso documenti della procura di molte province siciliane.

È sensato quindi ricercare le origini del fenomeno mafioso nei secoli in cui si riprodusse in Sicilia l’ordinamento feudale, di cui sarebbe poi stata decretata la totale dismissione intorno al 1815/1820. Si possono evidenziare due elementi fondamentali del sistema di potere siciliano di quel tempo.

Il primo era costituito da una società che si reggeva su un’impalcatura gerarchico-piramidale, dalle plebi ai principi. Il secondo consisteva nella particolare vicenda storica di una sovranità “statuale” appartenuta, quasi sempre per nove secoli, a dominatori stranieri. Cosi facendo, a fronte degli stranieri che miravano principalmente a difendere i loro titoli di sovranità, i ceti privilegiati siciliani – la classe politica quindi – in cambio della loro formale “ubbidienza”, avrebbero richiesto – e di fatti ottenuto – il controllo economico e sociale dell’isola.

Una dinamica del funzionamento del sistema che è sempre stata destinata a mantenersi viziosa e viziata in tutte le sue sfaccettature. Pertanto un assetto sociale di tipo feudale, geloso delle sue prerogative, disposto ad accettare il potere dello stato soltanto in misura dei vantaggi che i ceti privilegiati locali riuscivano di volta in volta a conseguire ha prodotto due fondamentali risultati storici.

Un primo risultato è stato quello dell’estrema debolezza e considerazione che i contadini ed i ceti più alti siciliani avevano dello stato, sempre costretto a patteggiare con il ceto politico siciliano le condizioni della sua legittimità che lo portava sempre più ad avere solo “formalmente” la sovranità. Un secondo risultato è contestuale al primo in quanto come conseguenza della sola sovranità formale che aveva “patteggiato” lo stato, il ceto politico siciliano era in netto contrasto, costantemente opposto si potrebbe dire, alle visioni dello stato, strumentalizzando il tutto a sostegno dei cosiddetti “interessi siciliani”.

Di qui, una lunga vicenda di questa pratica parassitaria della leadership siciliana, tanto astuta nelle mediazioni e transazioni per strappare concessioni, libertà private ed immunità, quanto però incapace di progettare e perseguire interessi pubblici e collettivi specialmente dei ceti meno abbienti, i contadini.

Si potrebbe dire quindi che, una sistematica elusione dello Stato, con la sua connaturata predisposizione all’illegalità, per fini egoistici, sia la matrice di tutti i possibili comportamenti mafiosi ragione per cui la classe dirigente siciliana ( il baronaggio politico ) ne porta supremamente la responsabilità. Tutto questo aveva ovviamente una ripercussione molto pesante, opprimente si può dire, sui ceti popolari che diventavano sempre più poveri e schiavi di questo sistema. Una foto simbolica, è la foto del terzo stato.

Pertanto, la mafia non è mai stato un fenomeno di rivolta, protesta dei ceti popolari contro i potenti come spesso si potrebbe sentir dire, associando i mafiosi al mito del simpatico ribelle di Nottingham, Robin Hood! Al contrario, mai il mafioso avrebbe lottato per far trionfare la giustizia ed i diritti sull’arroganza e sulla sopraffazione.

Egli sarebbe stato, invece, l’esponente di un ceto emergente di sopraffattori, ovvero di una borghesia parassitaria ( di cui è significativo l’esempio letterario “il Mastro don Gesualdo” del Verga ), decisa a farsi strada spregiudicatamente per condividere il potere dei signori. Anche nel migliore dei casi, questa spregiudicatezza affaristica del mafioso avrebbe avuto caratteri assai lontani dall’intraprendenza dell’imprenditore pro-capitalistica. Questo spiega anche il carattere “conservatore” del fenomeno mafioso, della persona mafiosa, costantemente alla ricerca di una sorta di stabilità e di “ordine”.

Potremmo dire in conclusione, che il Mafioso si stava formando, ed effettivamente si formò, come un elemento “sveglio” del popolo che aveva appreso bene la lezione dai potenti. Il suo valore, fin dall’inizio sarebbe stato quello di dimostrare la sua capacità d’imitazione dei signori, manifestando il possesso di energie, strumenti e coraggio sufficienti per sottrarsi il più possibile al potere – solo formale a quel tempo – dello stato e specialmente per far prevalere sulle leggi i suoi privati appetiti, un vero e proprio professionista del controllo del territorio, dell’astuzia e della violenza.

Controllo del territorio che avveniva tramite una rete strutturata ed organizzata molto complessa. Ma di questo parleremo nelle “prossime puntate”…..

…to be continued…


Articolo a cura di Giovanni Pelliccia

Redazione

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