«Pero otro peligro corre, acaso, nuestra América, que no le viene de sí, sino de la diferencia de orígenes, métodos e intereses entre los dos factores continentales, y es la hora próxima en que se le acerque, demandando relaciones íntimas, un pueblo emprendedor y pujante que la desconoce y la desdeña».
La tigre straniera, il gigante dalle sette leghe, di nuovo torna, ed il popolo delle foglie, che vive nell’aria, con le chiome cariche di fiori, deve muoversi nella marcia unita, nell’avanzata serrata come l’argento nelle radici delle Ande. Il linguaggio figurativo di José Martí nella Nuestra América trova nell’allegoria il modo più immediato per dare una rappresentazione della vicenda storica dell’America Latina e del Caribe: ne viene fuori una narrazione che si legge nella forma di una favola, ma che, invece del sonno, porta al mistico despertar del popolo. È un saggio breve dal respiro immenso, un invito all’unione e alla sovranità tra i popoli latinoamericani, un appello all’emancipazione dalla corona spagnola e, per ultimo, un avvertimento al grave frangente dell’imperialismo statunitense, che con forze smisurate passa attraverso los árboles per conquistare le terre del Sur.
Rileggo oggi le pagine della Nuestra América; al Tropico, si schierano flotte che battono stelle e strisce, di fianco a paradisiache spiagge di Caraibi impoveriti.
Apparentemente posizionata per combattere i narcotrafficanti venezuelani (ormai ricompresi da Washington nella categoria delle organizzazioni terroristiche), la forza militare statunitense è stata invero apposta per interessi politici decisamente più estesi, come manifestamente riconosciuto dai funzionari dell’amministrazione di Donald Trump: «Would everyone like Maduro to go? Yes» – «We’re going to put a tremendous amount of pressure on him. He’s weak. It’s quite possible that he’ll fall from this pressure alone without us having to do anything more direct». Non che si dica qualcosa di nuovo sulle pratiche degli Stati Uniti nei processi decisionali nel Sud America: Nicolás Maduro è un altro Manuel Noriega, capo dello stato panamense che nel 1989 George Bush volle espungere, estromettendolo per mezzo di un’incarcerazione per traffico di droga. Ma se, nel caso di Panama, l’opportunità dell’intromissione erano giustificate da un manifesto motivo strategico (intercedere nell’amministrazione del Canale), per il Venezuela il favore è meno evidente, e soprattutto ritrattato dagli analisti politici (tra cui, quelli dello Stimson Center), che prospettano come conseguenza un peggioramento complessivo delle condizioni del narcotraffico, del conflitto regionale e della migrazione.
Tralasciando la discussione della meritevolezza dell’intervento in Venezuela (noti i suoi propositi, simulati o effettivi), guardando alla questione con un approccio storicista, ci si può accorgere di come esso rientri nel quadro più ampio del modus operandi statunitense in America Latina, come esposto nel Corollario di Theodore Roosevelt del 1905 alla Dottrina Monroe. Il principio che si desume dall’ampliamento della regola è di piena responsabilizzazione degli Stati Uniti per il Sud America: da un lato, si dichiarano inammissibili interferenze da parte di stati terzi nell’amministrazione di tali territori, assimilandole a implicite dichiarazioni di guerra che producono legittimazioni all’uso della forza; dall’altro, riconosce l’entitlement alle ingerenze nel governo degli affari interni delle nazioni latinoamericane laddove sia rinvenibile un conflitto di interessi con quelli statunitensi. Washington si è costituito per sé, così, un international police power, adoperabile per intromissioni sostanzialmente arbitrarie nella sfera giuridica pubblica degli stati dell’America Latina.
L’interventismo degli Stati Uniti è stato una costante nei rapporti tra le due Americhe, anche durante periodi di presunto isolazionismo, come successivamente alla Prima Guerra Mondiale, quando Washington recesse da numerosi rapporti che la legavano agli stati europei, ma non disarmò il suo esercito continentale, organizzando operazioni in Honduras, Nicaragua e nella Repubblica Dominicana. Così per tutto il Diciannovesimo secolo: è il caso del Trattato di Guadalupe Hidalgo (con cui il Messico cedette parte del suo territorio contro denaro e ottenne la stipula di una pace) o della Guerra Ispano-Americana del 1898 (che portò gli Stati Uniti ad assumere il controllo, tra altri territori, di Cuba e del Porto Rico).
Da ciò, sembra che l’espansione degli Stati Uniti sia un processo evidente e inesorabile. Senza entrare in questioni di merito, deve essere per noi motivo di attenta considerazione l’invadenza della sovranità di uno stato ad opera di un altro, laddove manchi il consenso del primo, e l’intromissione si abbia, quindi, come del tutto arbitraria. E se è una circostanza, questa, che l’America Latina sente quanto mai immanente, essa ricomprende tutto un numero di stati non immediatamente attigui agli Stati Uniti, in cui questi ultimi attuano l’esercizio di poteri non meramente economici e sociali (o comunque serviti in forme indirette), ma territoriali (di cui, senz’altro, il Medio Oriente è un esempio icastico). Quello che dobbiamo chiederci è, allora, se questa espansione sia contenibile o meno, e quanto direttamente ci riguardi.
Io rispondo leggendo Martí. La dialettica servo-padrone che sostiene il discorso imperialistico, per cui il rapporto tra gli stati non può che risolversi nella sopraffazione dell’uno sull’altro, trova il suo margine nella dimensione identitaria irriducibile di un popolo, che sempre potrà chiamarsi con il proprio nome, e dovrà anzi arrivare a enunciarlo come un grido esistenziale nel momento dell’oppressione. L’autodeterminazione è un diritto che vive di una sua dimensione continuativa e richiede l’esercizio costante del popolo che lo detiene. Per Martí, «Il dovere urgente della nostra America è mostrarsi per quella che è, unita nell’anima e negli intenti, conquistando rapidamente un passato soffocante», attraverso la pratica della conoscenza di sé e della giustizia, nella prospettiva di ridurre le disparità nei popoli e tra i popoli, e così ricondurli all’unità storica e culturale da cui provengono e di cui devono servirsi come sponda per la propria affermazione. «Es la hora del recuento, y de la marcha unida, y hemos de andar en cuadro apretado, como la plata en las raíces de los Andes».
A cura di Cristiano Nardelli

