29 Marzo 2024 - 6:45
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Yemen. Tra catastrofe e disastro

Mentre l’attenzione generale è rivolta alla questione siriana, è passato relativamente inosservato il conflitto in Yemen iniziato a fine marzo tra la coalizione degli stati del golfo (inclusi Giordania, Egitto, Marocco e Sudan) contro i ribelli Houthi dell’ex Presidente Yemenita Saleh—sostituito dall’attuale filo-Saudita Abd Mansur Hadi.

Lo Yemen, paese collocato all’estremità sud-occidentale della penisola Arabica, è stato messo in ginocchio da una guerra sanguinosa e disastrosa in cui neanche i servizi umanitari basilari possono svolgere il loro ruolo. Negli ultimi sei mesi sono morti oltre sei mila yemeniti, con altri 14 mila feriti e più di un milione di profughi. In termini di numeri non ha ancora raggiunto la Siria, ma in proporzione, la condizione della popolazione yemenita è forse ancora più tragica. Lo Yemen si trova in una posizione geografica isolata, con il Mar Rosso ad ovest e il golfo di Aden al sud, adiacente al Corno d’Africa. I rifugiati si trovano dunque come alternative più vicine Somalia o Eritrea, paesi, in questo momento, tutt’altro che ospitali.

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(in verde la zona controlla dalla Commissione Rivoluzionaria, in rosso le zone controllate dal governo Hadi e dalle forze tribali, in bianco la zona controllata dagli Jihadisti (Al-Quaeda/ISIS)

Questa posizione strategicamente sfavorevole è stata forse tra i fattori che hanno facilitato la repressione da parte dei sauditi della ribellione Houthi per rimettere al suo posto il loro burattino Hadi, deposto dall’offensiva ribelle a Sana’a del 25 marzo. Nonostante ciò, i bombardamenti a tappeto giornalieri da parte dell’alleanza hanno avuto poco effetto sul ridimensionamento del territorio controllato dai ribelli Houthi, che attualmente occupano la parte ovest. Anzi, contro la coalizione del Golfo si sta alimentando un’opposizione sempre più grande. Tra i pro-Houthi figura anche la Guardia Repubblicana e parte delle forze di sicurezza, rimasta fedele all’ex presidente. Anche altre forme di rivalità e fazioni si sono schierate nel conflitto in Yemen, creando un quadro assai complesso: al fianco dei sauditi combattono le forze tribali Al-Islah (un movimento di natura islamica molto influente collegata ai Fratelli Musulmani) e un’altra parte delle forze di sicurezza pro-Hadi. Oltre a queste milizie si è instaurata la presenza militare di Al-Qaeda e ISIS che controllano la fascia centrale del paese. I jihadisti, oltre che a seminare caos e terrore, agiscono da barriera per molti profughi impedendo loro di passare ad ovest in Oman, unico paese rimasto neutrale e che agisce da importante interlocutore politico ed umanitario nella zona.

Ad ogni modo, quello a cui si assiste in Yemen è ben più di una semplice mossa militare voluta dai sauditi per eliminare un incomodo vicino. In un’ottica più grande, il conflitto dimostra la concreta ambizione dei paesi del golfo di voler riaffermarsi geopoliticamente come forza primaria in quella regione e, indirettamente, sfidare l’influenza iraniana che è aumentata da quando Stati Uniti e Iran hanno passato l’accordo sul nucleare. La presenza della Russia in Siria, alleata dell’Iran, ha anch’esso mandato un segnale d’allarme. In vista di questi sviluppi, bisogna anche sottolineare il significato domestico dell’intervento saudita, che si spinge cosi’ apertamente oltre le sue frontiere. Il modo in cui si è schierato Re Salman bin Abdulaziz Al Saud, che ha assunto l’incarico da monarca solo a gennaio, si è rivelato una manovra mirata a riallineare gli atteggiamenti e la struttura del regime. Come prima cosa, il Re vuole invigorire il sentimento nazionale Saudita (che non fiorisce sotto la petromonarchia a causa di una demografia troppo povera e vecchia). Il califfo sfrutta come strumento principale la retorica anti-iraniana per ottenere più consenso e stabilità a fine di evitare una sua primavera araba. Ma per quanto possa essere incerto l’appoggio della popolazione saudita per la guerra, il Re si è dimostrato radicale nelle sue scelte di rinnovamento dell’élite. L’intervento, come evidenziato dall’analisi del Washington Post, ha conferito maggiore importanza e potere allo statuto di Al Saud, grazie al quale ha potuto rimpiazzare sia il ministro dell’interno con suo nipote Mohammed bin Nayef, che il successore alla Corona con suo figlio Mohammed bin Salman, entrambi più entusiasti della guerra. Inoltre, è stato nominato (da primo non-reale) Abel al-Jubeir come ministro degli esteri, che sino ad ora è stato ambasciatore presso gli Stati Uniti. Tramite il conflitto, il re ha potuto dunque risolvere i problemi di leadership e successione, solidificando contemporaneamente le relazioni con gli Stati Uniti in un momento dove l’Arabia Saudita si trova minacciata dall’Iran.

Dunque, la rivalità tra sunniti e sciiti e’ ormai esplosa in maniera evidente. Inoltre, è chiaro che gli stati del Golfo non hanno intenzione di negoziare e appare difficile per l’occidente— Gran Bretagna e Stati Uniti sono i fornitori principali di armi, veicoli militari, aerei (Typhoon e F-18) e droni avanzati—indurre i sauditi alla moderazione. Una settimana fa, dei raid hanno ucciso altre 13 persone mentre prendevano l’autobus per andare a lavorare nella capitale Sana’a. Ancora più sconvolgente è stato l’attacco Saudita sulla struttura medica di Medecins Sans Frontieres che ha suscitato l’appello del Segretario Generale dell’ONU Ban-Ki Moon. Riyadh, però, smentisce tali accuse di violazione dei diritti umani, rivolte anche per la distruzione di infrastrutture idriche ed energia elettrica, che, secondo l’UNICEF, ha lasciato 10 milioni di civili senza sufficiente alimentazione.

 

Redazione

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