19 Marzo 2024 - 5:18
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Mission (not) accomplished: quindici anni dopo

Era il primo maggio 2003: sul ponte della portaerei USS Abraham Lincoln, in una giornata dal cielo terso, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush tenne un discorso che verrà ricordato per una frase scritta a caratteri cubitali alle sue spalle: “Missione compiuta”. Due semplici parole che riassumevano lo Spirito del mondo di quegli anni che, dal 1991, vedevano gli Stati Uniti ricoprire il ruolo di unica superpotenza globale. Durante il suo discorso, Bush affermò che la parte più importante delle operazioni belliche iniziate quello stesso anno e che costituiranno la Seconda Guerra del Golfo – o più banalmente l’invasione dello Stato sovrano dell’Iraq – fosse ormai conclusa, facendo capire che la fine di un conflitto iniziato ufficialmente in risposta all’attentato dell’11 settembre 2001 fosse vicina.

Se volessimo fare un’analogia con la Storia europea, il 9/11 fu senza dubbio la Sarajevo che scosse un mondo in cui gli equilibri politici internazionali sembravano ormai immutabili, con gli USA alla guida del mondo, e che fece precipitare le nazioni in una guerra che molti pensavano di vincere con poco sforzo. Una Sarajevo che forse qualcuno cercava, ma che certamente molti sfruttarono: gli interessi dell’industria bellica e petrolifera hanno potuto contare su prospettive di sviluppo immense, come immensi furono i danni del conflitto conclusosi ufficialmente nel 2011 ma le cui tracce continuano ad essere visibili tutt’oggi.

Da quel giorno sono passati esattamente quindici anni. Il 1 maggio 2018 il mondo si sveglia con un volto coperto dalle cicatrici lasciate ai tempi di Bush: del resto, fu all’interno del contesto generato dall’occupazione americana che nacque l’organizzazione denominata Islamic State of Iraq (ISI), fondata nel 2006 da Abu Ayyub al-Masri ed originariamente parte del ramo iracheno di al-Qaeda. Sotto la guida di Abu Bakr al-Baghdadi, tale gruppo diverrà Daesh o Islamic State of Iraq and the Levant (ISIL, poi ISIS) nel 2013. Oggi l’Iraq è ridotto di fatto ad un failed state dilaniato da una guerra civile iniziata nel gennaio 2014, con la conquista di Fallujah, Tikrit e Mosul. Quella missione che sembrava essere già compiuta per la maggior parte è risultata essere una trappola in cui gli Stati Uniti ed i loro alleati sono rimasti bloccati per anni, con ingenti costi umani per tutte le parti coinvolte.

Alcune cose, però, sono cambiate visibilmente da quando il presidente americano era il cowboy dalla parlata buffa e spesso oggetto di caricature: negli ultimi anni nazioni come la Russia e la Cina si sono dimostrate desiderose di acquisire più spazio nella gestione della governance globale, ottenendo anche risultati apprezzabili come la collaborazione per la Belt and Road Initiative definita, qualora dovesse essere portata a termine, la più grande opera infrastrutturale della Storia dell’umanità. Esistono inoltre il progetto di integrazione regionale delle principali organizzazioni asiatiche fortemente caldeggiato da Putin – Shangai Cooperation Organization, ASEAN e Unione Euroasiatica – il quale potrebbe riunire metà della popolazione mondiale e la più ampia concentrazione di risorse naturali disponibile.

Contro questi cambiamenti epocali gli Stati Uniti oppongono un personaggio che sembrerebbe essere quanto più distante possibile da George W. Bush, ossia Donald J. Trump, il quale non gode di particolare simpatia politica fra i membri della famiglia di petrolieri. Eppure, le analogie fra le due figure sono numerose e particolarmente interessanti.

Innanzitutto, entrambi i presidenti uscirono vincitori da elezioni che divisero l’opinione pubblica portando avanti un programma lontano dalla tradizione interventista americana, a tratti addirittura isolazionista, il quale ha però subito un brusco cambio di rotta per due eventi politici di ampia portata – nel caso di Trump, gli sviluppi della guerra civile siriana –.

Un secondo punto di convergenza è il rapporto con la Russia, che vide Bush impegnato da una parte ad annunciare la sua “diplomazia dell’amicizia” (2002) nei confronti del Paese nato dalle macerie dell’URSS, mentre dall’altra parte gli USA provvedevano allo smantellamento del Trattato anti missili balistici (ABM Treaty) stipulato il 26 maggio 1972 e denunciato dagli Stati Uniti il 13 giugno 2002, annunciando allo stesso tempo di voler potenziare ulteriormente il proprio sistema missilistico. Ricorda almeno un po’ la volontà di Trump di stringere amicizia con Putin per poi annunciare l’arrivo di missili “belli e intelligenti” sulle teste di chi non è abbastanza assertivo.

Inoltre, sono simili persino alcuni personaggi che gravitano attorno ai presidenti, come l’allora vicesegretario della Difesa Wolfowitz, principale architetto della politica estera di Bush e teorico dell’interventismo unilaterale di stampo neocon (all’interno della cosiddetta “Dottrina Wolfowitz”), e l’attuale Consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, sostenitore dell’intervento per il cambio di regime in Siria, Iran e Libia, oltre che sostenitore della guerra in Iraq a suo tempo.

Come se le analogie non fossero sufficienti, per sostenere la loro causa nel 2003 gli Stati Uniti si misero a capo di una cosiddetta coalition of the willing – di cui facevamo parte anche noi stando alla dichiarazione della Casa Bianca del 27 marzo 2003 – come in questi anni in Siria, dove si sono tenuti stretti i propri alleati storici spesso relegati ad un ruolo subalterno. Tuttavia, sebbene l’attuale alleanza impegnata nei bombardamenti in risposta al sospetto uso di armi chimiche da parte del regime di Assad sembri ricalcare tale modello, la realtà delle cose è che al contrario del 2003 oggi non tutti sono disposti a guardare mentre gli Stati Uniti realizzano i propri progetti. Oggi gli attori sono molteplici, i rischi maggiori e gli ostacoli più tortuosi.

Mentre il mondo sta di fatto accantonando il carattere unilaterale degli anni a cavallo fra la fine del Novecento e gli anni Duemila, gli Stati Uniti sembrano essere rimasti a quella portaerei, a quella scritta trionfale, non riuscendo più a seguire gli sviluppi di un’epoca che ha preso forma proprio con quella missione che sembrava già compiuta. A quindici anni di distanza da quel discorso gli USA stanno ancora vivendo in un mondo che porta i segni dell’11 settembre e di George W. Bush, i quali pesano come un trauma che sembra impossibile superare. In quindici anni, però, la missione non è stata compiuta e i segni visibili del fallimento sono nell’attuale scenario internazionale, figlio del crollo di un’epoca che sembrava destinata a durare per sempre.

A cura di Riccardo Antonucci

 

Riccardo Antonucci

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