19 Marzo 2024 - 5:58
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IL LUNGO CALVARIO DELLA CASA DELLE DONNE E LA CRISI DEI CENTRI ANTIVIOLENZA ITALIANI

Dopo giorni di scontri politici, è stato dichiarato inammissibile l’emendamento presentato dai relatori al decreto Milleproroghe per finanziare e salvare la Casa Internazionale delle Donne con 900 mila euro nel 2020, soldi che sarebbero stati prelevati dal fondo per le esigenze indifferibili del Ministero dell‘Economia.

Così, la strada per il salvataggio della storica sede femminista romana sembra ancora lunga. La sua storia inizia il 2 ottobre del 1976 grazie all’occupazione di palazzo Nardini da parte di alcuni movimenti femministi. 

Dopo una lunga trattativa con il Comune della Capitale durata quasi 10 anni, nel marzo del 1985 il sindaco Signorello concede alle femministe un’ala del palazzo dell’ex convento del Buon Pastore a Trastevere che, fra l’altro, era un ex penitenziario. 

Nel 2001, una convenzione stipulata con il sindaco Veltroni ha pefissato un affitto troppo alto (ben novemila euro) per le associazioni della Casa che svolgono le varie attività senza fini di lucro.

Da lì è cominciato il loro lungo calvario, con circa 800 milioni di euro di affitto non pagato accumulati negli anni, nonostante l’impegno delle attiviste che cercavano di finanziare quanto più possibile la loro attività senza ricevere risposte alle richieste rivolte all’amministrazione capitolina.

Il 17 maggio del 2018 una mozione firmata M5S chiede al Comune di indire un bando di gara per l’assegnazione degli spazi e dei servizi abitati dalle associazioni della Casa, condannando allo sfratto leattiviste nonostante i 600 mila euro già versati come parte dell’affitto. Per non dimenticare che le associazioni hanno finanziato senza ulteriori aiuti tutte le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria dello stabile, spendendo oltre 300 mila euro. Ma, nonostante quel fulmine a ciel sereno, la Casa non si è arresa: il 21 maggio 2018 centinaia di donne scendono in piazza al grido “La Casa non ve la diamo, la Casa non ve la lasciamo, giù le mani dalla Casa mentre la sindaca Virginia Raggi, in riunione con le rappresentanti, conferma di non voler abbandonare la posizione del partito.

Ed ecco che pochi giorni fa, dopo oltre un anno di silenzio da parte del Campidoglio circa la risoluzione del debito e la possibilità di un comodato gratuito per il riconoscimento del valore sociale delle attività della Casa, arriva l’ultima batosta. Prima che l’emendamento venisse bocciato, fu la stessa sindaca Raggi ad esultare sui social compiendo una clamorosa gaffe  proclamando la sua felicità riguardo alla presunta salvezza della Casa delle Donne: «Abbiamo trovato una soluzione. Una vittoria di tutti!» aveva twittato.

Non tardò ad arrivare la dura replica di Maura Cossutta, presidente della Casa: «La Raggi non l’abbiamo mai sentita. Da più di un anno attendiamo una risposta».

Così, mentre Pd e Italia Viva presentano ricorso alla bocciatura del loro emendamento, l’opposizione festeggia. Giorgia Meloni (FdI) twitta contro i gruppi proponenti, giudicando il provvedimento come un tentato aiuto alla campagna elettorale del ministro Roberto Gualtieri alle suppletive di Roma.

La questione è stata dunque trasformata in un caso politico, a discapito delle donne romane ed italiane: non dimentichiamo che in Italia si registra un femminicidio ogni 72 ore. Ma il dato che fa ancora più paura è che i centri antiviolenza e le associazioni che si battono per estirpare il cancro della cultura maschilista dalla nostra società sono sempre più sotto attacco: minacce di sfratti, chiusure e attacchi mediatici sono ormai tristemente frequenti e all’ordine del giorno. È una dura battaglia quotidiana della quale si parla poco. 

Secondo la Convenzione di Istanbul, ogni Paese dovrebbe essere dotato di un centro antiviolenza ogni 10.000 abitanti: in Italia, esistono 281 strutture, cioè 0,05 per 10 mila residenti. In pratica, un ventesimo del necessario. E le donne che avrebbero bisogno di aiuto sono tantissime. 

 Condannare a morte la Casa Internazionale delle Donne che ha accolto mezzo milione di donne romane e che si batte da quarant’anni per l’autodeterminazione femminile, che accoglie e sostiene donne vittime di violenza, che aiuta nella ricerca del lavoro, significherebbe annullare anni di progressi nella lotta contro una cultura sbagliata che rende malato il nostro Paese e incoraggiare ancora di più questa tacita e assurda lotta contro le associazioni che si battono per una cultura paritaria e giusta. Occorre un’inversione di tendenza decisiva, una risposta forte anche da parte dalle istituzioni affinché l’Italia possa essere libera e possa tendere allo sviluppo.

 Non si tratta solo, come impropriamente si pensa, di femminismo: si tratta di diritti, di libertà, di giustizia, di democrazia. Non possono esistere schieramenti politici o generi o razze, è una battaglia che per sua natura coinvolge tutti: di fronte alla lotta per i diritti, siamo solo esseri umani.

 Articolo a cura di Gabriella Barbera 

 

Redazione

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