19 Marzo 2024 - 8:50
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AT ETERNITY’S GATE

Il pittore e regista Julian Schnabel ci ha abituato a lavori biografici come Lou Reed’s Berlin, Basquiat, Prima che sia notte o il più spiazzante Lo scafandro e la Farfalla, opere sensibili, drammatiche, ironiche, che intrecciano linguaggi e cavalcano emozioni; lo ritroviamo in concorso alla 75° Biennale del cinema di Venezia con un film su Vincent Van Gogh o meglio, sull’ultimo periodo della sua vita.

Intitolato come uno dei suoi quadri, Sorrowing old man o At Eternity’s gate, letteralmente “Vecchio affranto” o “Al cancello dell’eternità”, parole che ben identificano temi e atmosfere del mondo “Vangoghiano” trasposte qui con sincera grazia e rarefazione, in un’alternanza tra visioni vivide e spettacolari, e soggettive semisfocate appartenenti al delirio dell’estro, al ricordo e alla fragilità dello sguardo di uno dei pittori più amati e sofferti dell’Ottocento.

Si parte da Parigi, città che aveva accolto e fatto crescere Vincent, facendogli incontrare colleghi di riconosciuto talento, che segneranno il tempo, come Renoir, Monet, Cezanne, Degas, ma dove il suo lavoro langue nonostante la vicinanza del fratello benefattore Theo, gallerista e venditore di opere d’arte, da sempre suo sostegno psicologico ed economico.

Nella ville lumiere i quadri di Van Gogh stentano a trovare collocazione, gli spazi sono pieni di qualcosa di bello eppur tradizionale, la luce poca e fredda, l’aria soffocante. Centrale l’incontro con Guaguin, amatissimo amico e stimato collega da sempre insofferente agli andazzi parigini, alle tendenze assopite e poco lungimiranti della capitale, inquieto e visionario, che gli consiglia di andare a Sud dove abitano luce e bellezza in quantità.

Così Vincent parte per la Francia meridionale ed inizia la sua avventura in Provenza ad Arles, nella casa gialla, che diventerà il suo studio. Qui, il sole, il clima più mite, i panorami splendidi ed accoglienti, i colori caldi sono un richiamo continuo all’arte, la natura generosa lo reclama e lui dipinge in modo quasi forsennato, ogni giorno, durante lunghe escursioni solitarie a piedi: alberi, radici, paesaggi, volti randagi, pellegrini casuali, oggetti poveri di una magnetica e desolante bellezza, luci intraducibili, tanta beatitudine che passa così spesso inosservata nelle piccole cose e che invece ha l’infinito da raccontare.

“C’è così tanto da osservare” attorno a noi; la stessa cosa ha sempre un particolare in più, che, anche dopo ore di attenti sguardi, risalta all’improvviso agli occhi, come un miracolo.

Sono gli anni della produzione frenetica, dei colori smaglianti, del caparbio squilibrio tra quantità di colore e tela, tanti strati di colore quant’ è il tormento del suo occhio, quadri che diventano tridimensionali, sculture parlanti; ci sono le discussioni sul senso dell’arte e sulla soggettività di ciò che si osserva con l’amico Guaguin venuto a trovarlo per un periodo e poi ripartito, lasciandolo scorato e disperso, come un bambino abbandonato, tanto da spingerlo a tagliarsi un orecchio e a farglielo recapitare pur di convincerlo a rimanere con lui.

Spesso non capito, deriso, lui e la sua non-pittura, preso per matto, isolato, artista altissimo nella sua dedizione, puro, che doveva amare ed essere amato oltre ogni ragionevole sopportazione.

Dei suoi demoni, degli incubi che gli tormentavano il sonno, dell’alcool, della febbre delirante che lo spingeva a dipingere, delle sue violenze improvvise contro altri, contro se stesso, il film suggerisce, ma non indaga, lasciando aperta la sensazione verso un’indole profondamente irrisolta, alla ricerca di pace e di vita oltre il proprio tempo.

La narrazione lineare, estetica, a tratti didascalica, sembra attraversare i momenti di buio e di estasi di Van Gogh con indulgenza e tenerezza, senza forzare la mano, restituendoli allo spettatore in un curatissimo ed amorevole abbraccio: si racconta del ricovero in manicomio, dalle voci che sentiva, oltre il silenzio della sua solitudine, reso parlante solo dalle ostinate, magnifiche creazioni pittoriche, del suo rapporto dolcissimo con il fratello, ancora di salvezza, amato bene, bisogno di accoglienza che così poco ebbe soddisfatto dal mondo, della follia, della rabbia dell’insoddisfazione, dei cieli sconfinati a cui si rivolgeva come un angelo caduto che cerca ragione di sé, senza trovarla, imponendosi però di credere ci sia, dei 75 quadri dipinti negli ultimi 80 giorni di vita nel ricovero dove era fuggito/sfuggito d/al mondo, di quella pallottola che finì nel suo torace, come, dove e perché non si sa, una pallottola senza colpe come sospirò Vincent moribondo, che se lo portò via per sempre, un pittore geniale, un bambino di 37 anni, un profeta dell’arte che vide oltresè e pagò caro il prezzo della sua immortalità.

Commovente, straziante in certe parti, visivamente ineccepibile, il film è un omaggio quasi incondizionato di un pittore ad un padre della pittura che continua a sorprendere ed ispirare: ogni inquadratura è studiatissima, la ricerca e la ricostruzione dei paesaggi originali praticamente perfette; suggestivo l’utilizzo di filtri distorcenti e di luci sature di colore come cambi emotivi di prospettiva; campi lunghi e soggettive sono architettate per darci la sensazione di essere nella mente dell’artista, seguirne i pensieri obliqui, liquidi, le curve dei desideri, quasi anticipandole.

Poetico atto d’amore verso un maestro incompreso della nuova arte, che lottò contro l’indifferenza e da essa probabilmente fu fagocitato, interpretato da uno splendido Willem Dafoe (meritata Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile), indiscutibile punto di forza del film, la cui somiglianza è tanta e tale da dover fare quel poco più di studiatissimo nulla che ci restituisce le viscere del personaggio.

Basti ricordare che pur avendo il doppio dell’età del pittore, Dafoe ne incarna simbioticamente il fisico tormentato, la scintilla magnetica degli occhi e, soprattutto, la dilaniante fragilità in ogni singolo frammento, catturando lo stomaco fino all’ultimo fotogramma: è il Gesù Cristo della pittura moderna con la benedetta condanna di non saper smettere di parlarci.

Regia: Julian Schnabel

Sceneggiatura: Jean Claude Carrière, Julian Schanbel, Louise Kugelberg

Fotografia: Benoit Delhomme

Montaggio: Louise Kugelberg, Julian Schnabel

Effetti speciali: Thibaut Granier

Musiche: Tatiana Lisvokaia

Scenografia: Stephane Cressend

Cast: Willem Dafoe, Oscar Isaac, Rupert Friend, Emmanuelle Seigner, Mads Mikkelsen, Mathieu Amalric

 

A cura di Flavia G. De Lipsis

Redazione

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